Tito Gobbi

Novembre 2005 - Tito Gobbi venti anni dopo: costruire dei personaggi

Baritono di grande popolarità, poi regista d’opera, fu interprete dalla straordinaria e innata vocazione teatrale.
di Franca Cella, Amadeus Novembre 2005

Tito Gobbi in Simon Boccanegra

Tito Gobbi in "Simon Boccanegra"

A vent’anni dalla scomparsa del baritono Tito Gobbi (Bassano del Grappa, 24 ottobre 1913-Roma, 5 marzo 1984), una Mostra al milanese Palazzo Busca, rapida e intensa, una monografia (Tito Gobbi alla Scala, Edizioni del Teatro alla Scala) sono state occasioni per ripensare un grande. È stato un interprete di enorme popolarità internazionale, dominatore di grandi Teatri: l’Opera di Roma (dal 1939 al ’60), la Scala (dal 1936 al ’62), il Comunale e il Maggio Fiorentino (dal 1940 al ’55), il Festival di Salisburgo (1950, ’57, ’61), il Covent Garden di Londra (dove fu amatissimo, dal ’51), São Carlos di Lisbona (dal ’53) e poi l’America: San Francisco (dal ’48), Chicago (dalla riapertura del ’54 per 25 anni), il Met (dal ’56). Ma non era un barone. È stato un costruttore inarrestabile di personaggi, di repertorio (cento titoli), duttile alle novità. E quando passò anche alla regia, dal ’65, non fu onor dovuto; i suoi bozzetti mostrano la percezione della centralità dell’interprete (ad esempio la scena del cimitero per Don Giovanni, lineare di alberi e solitudine), continuano quel segno sicuro, quasi maniacale, con cui Gobbi ha sempre curato personalmente il trucco e il costume del proprio personaggio. Dotato di una maschera dalla mimica mobilissima, si è trasformato con stupefacente varietà di ritratti.

Era nato con una straordinaria vocazione ed energia teatrale, e anche la voce scura, robusta, fu caricata all’espressione teatrale, alla forza incisiva della parola scenica, allo scatto drammatico delle passioni. Conquistò subito l’attenzione e fiducia dei direttori: Marinuzzi gli procura una borsa di studio alla Scala (1935 e ’36), Serafin ascolta il suo debutto a Roma (Germont al Teatro Adriano, nel ’37), e lo chiama al Teatro dell’Opera dove lo fa debuttare gradualmente nei suoi futuri grandi ruoli (Ford in Falstaff, Renato nel Ballo, il Marchese di Posa nel Don Carlo, Simone Boccanegra, Enrico in Lucia, Tonio nei Pagliacci) finché lo sceglie protagonista per la prima italiana del Wozzeck di Berg (Roma, 3 novembre 1942, direttore Serafin). Piacque a de Sabata, che lo volle Ford alla Scala per l’inaugurazione 1942, e trovò in Gobbi lo Scarpia ideale della sua Tosca (registrata alla Scala, 1953): di forte temperamento, reattivo all’impeto crescente della scena della tortura e terzetto, disponibile al ritmo quasi diabolico delle sue accensioni.

Fu Don Giovanni al Festival di Salisburgo con Furtwängler, nel 1950; ebbe intesa folgorante con Mitropoulos, dal Wozzeck alla Scala nel ’52 (prima milanese, contestatissima), alla Tosca con cui Gobbi debuttò al Met nel ’56, e a una eccitante Fanciulla del West a Chicago, ’56. Fu un Figaro dinamico, scattante sulla sillabazione, nel Barbiere di Siviglia diretto da Giulini alla Scala nel ’56, con Maria Callas, e sempre con la sua direzione un magnifico Marchese di Posa, per morbidezza, eloquenza, affettuosità, al Covent Garden nel ’58, con la regia di Visconti, e ancora fu il Conte delle Nozze di Figaro a Chicago ’57 e al Met nel ’68. Fu il Falstaff di Karajan, istrionico e immaginoso, da Londra ’56 alla Scala ’57 a Salisburgo ’58.

Era intelligente, duttile alle loro intenzioni, col gusto vivo del fraseggio, dei contrasti di tinte e di accenti, l’eloquenza sonora che s’espandeva piena in teatro. Era moderno nella concezione del cantante d’opera-attore, e seppe mettere a frutto la lezione dei registi con cui collaborò, da Graf a Visconti a Zeffirelli (Tosca con la Callas al Covent Garden nel ’64). La sua formazione vocale, pur maturata con specialisti come Serafin, risponde a un’epoca di grandi voci; quando cominciò a rinascere la cultura del belcanto, i signori delle grandi voci vennero analizzati al tavolo anatomico. Secondo la prospettiva tenorile di Lauri Volpi, la voce di Gobbi era «esigua», e la sua tecnica ne «ha tratto impensate sonorità e rivoluzioni temerarie» (Voci parallele, Milano 1955). Secondo Rodolfo Celletti la pecca sarebbe nel non aver studiato il passaggio di registro petto-testa, così che dal medium pieno e autorevole da grande baritono Gobbi passa, oltre il re acuto, a suoni aperti, talora opachi o gridati. È innegabile riconoscere nel canto di Gobbi qualche carenza di fonazione: qualche birignao nasale d’avvio, come a prender quota, qualche emissione stentorea o truce, qualche scoppio violento a scopi drammatici, qualche mezza voce che si stinge. Ma quale ricchezza di vita, quale calore nel suo canto. Quale concentrazione di sguardo, gesto, colore di voce, peso d’orchestra e di destino comunicava il suo Padron Michele ad apertura di sipario, nel Tabarro diretto da Gavazzeni, alla Scala stagione 1962-63. «Michele, colla pipa spenta, è immobile presso il timone guardando il sole che tramonta». Il canto di Giorgietta ne legge l’immagine con crudeltà pucciniana, e la risposta è un interrogativo cupo «Han finito laggiù?».

Indimenticabile in teatro la fierezza grandiosa, storica, del Doge Boccanegra nella scena del Consiglio, e la forza magnetica terribile di sguardo e voce con cui chiama per nome il traditore. E la ricchezza di drammaticità, tenerezza e senso d’eternità cui riesce a dar risalto nello scioglimento dell’opera. Nel Prologo dei Pagliacci sono l’intelligenza e la voce a recitare: lo dice con chiarezza di intenzioni come un manifesto di nuova teatralità, assaporando le parole, e poi lo espande in pienezza dolorosa, coinvolgente, di Tonio e di tutta la «giovane scuola». La versatilità di Gobbi ha accumulato un repertorio di oltre cento titoli, da Verdi a Puccini, Rossini, Donizetti a Strauss, Berlioz, Wagner, dal verismo a tante opere del Novecento, passando con scioltezza dal tragico al brillante, col gusto di scoprire linguaggi, di creare la vitalità e sottigliezza di nuovi personaggi. Innumerevoli le prime esecuzioni: le prime per l’Italia come Wozzeck (in lingua italiana) o Arabella di Strauss (prima rappresentazione a Roma, 1942), Orseolo di Pizzetti (prima rappresentazione alla Scala, 1936). E le prime esecuzioni assolute, come Monte Ivnor di Rocca, Roma 1940, La Resurrezione di Cristo di Perosi (Scala 1941), Ecuba di Malipiero (Roma 1941), La locandiera di Persico (Roma 1941), L’ipocrita felice di Ghedini (Piccola Scala 1956), Il Tesoro di Jacopo Napoli (Roma 1958) fino a L’Oracolo di Franco Leoni (Londra 1975). La sua versatilità d’attore si incontrò col fenomeno del film d’opera, esploso negli anni ’40, e vi trovò un ulteriore canale di popolarità: protagonista di vari film musicali, ma anche semplice attore, da Musica proibita, 1943, 07... Tassì! del ’46, The Glass Mountain di Henry Cass, 1952.

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